Indipendenza della Banca d'Italia e crescita del Paese

La nuova riforma dell'assetto proprietario della Banca d'Italia, stabilita nel decreto 133/2013 convertito in legge il 29 gennaio scorso, segue il modello della 'proprietà diffusa' e ha molti punti di forza: garantisce l'indipendenza dell'istituto e traccia la strada per la crescita del Paese, con il rafforzamento dei sistema creditizio, finanziario e assicurativo italiano e quindi con la riduzione, in futuro, delle restrizioni sul credito. In primis, va ricordato che la Banca d'Italia non è mai stata statale, ma di proprietà degli istituti bancari e assicurativi. La legge istitutiva del 1936 sceglie di lasciarla a distanza dalla ingerenze della politica. La riforma del Parlamento, oggi, mantiene questa scelta. La compagine azionaria è, attualmente, per più del 50%, in mano a Intesa San Paolo e Unicredit, ma la Banca d'Italia è e resta un istituto di diritto pubblico. Soci proprietari delle azioni non hanno alcun potere sulla governance dell'istituto o sulla gestione delle attività della Banca. Non c'è dunque il pericolo che i controllati (le banche) controllino il controllore (la Banca d'Italia che esercita vigilanza sui mercati creditizi e assicurativi); tuttavia, va detto che l'attuale assetto proprietario è considerato da più parti non soddisfacente, perché si insinua la possibilità che i grandi gruppi bancari possano esercitare influenza sulle decisioni della Banca centrale, che deve restare indipendente. La riforma, proprio per questo, è di portata storica: nessuno potrà possedere più del tre per cento delle azioni della Banca d'Italia, chi oggi possiede di più dovrà vendere; potranno comprare anche le fondazioni ex bancarie e i fondi pensione. Non sono d'accordo - e con me la mia parte politica - sulla statalizzazione: se fosse lo Stato a comprare, sarebbe infatti necessaria una copertura di svariati miliardi da togliere ad altre voci di spesa pubblica; è meglio inoltre avere una Banca in posizione di servizio istituzionale piuttosto che di comando gerarchico da parte del governo. L'altro punto fondamentale a cui mette mano la riforma è la rivalutazione: l'obiettivo è stabilire un criterio omogeneo cui dovranno attenersi le banche azioniste. Il valore del capitale viene portato a 7,5 miliardi (la cifra attuale, mai aggiornata dal 1936 è di 156.000 euro!); agli azionisti – questa è la nuova regola – verrà riconosciuto un rendimento non superiore al sei per cento del capitale investito. Sono dunque separate da questo calcolo le riserve, poiché in queste sono compresi i frutti delle attività pubbliche e istituzionali, che non posso essere redistribuiti ai soci. Grazie alla riforma, le azioni della Banca d'Italia potranno essere inserite nel capitale di vigilanza dei soggetti che le posseggono, proprio perché saranno sul mercato e seguiranno un criterio univoco di valutazione. E' un passaggio cruciale: i 7,5 miliardi derivanti dalla rivalutazione rafforzano il patrimonio del sistema bancario italiano  - e questo risultato si ottiene senza spendere neanche un euro dal bilancio pubblico. I proprietari delle azioni rivalutate le venderanno sul mercato per scendere al tre per cento. Il denaro che andrà alle banche sarà proveniente dal mercato, non dallo Stato. Molti ritengono questa un'operazione border line, perché si ottiene un beneficio rivalutando ciò che oggi non sta sul mercato (le azioni della Banca centrale); ma anche l'Europa (è uno dei rari casi) ha accolto questa ipotesi. C'è infatti l'importante via libera della Banca centrale europea che, pur lamentando tempi troppo ristretti fra il suo parere e il decreto, ha dato un'interpretazione favorevole all'Italia. La BCE, è bene sottolinearlo, chiede che le riserve siano ricostituite con adeguati accantonamenti negli anni futuri e che si mantenga la piena autonomia di finanziamento della Banca d'Italia. Una riflessione, in aggiunta, va fatta proprio sulle riserve, spiegando che l'operazione in corso non tocca le riserve in oro (100 miliardi), né quelle speciali (circa 8 miliardi), ma solo quelle ordinarie e straordinarie (15 miliardi). Sono così alte perché, storicamente – e ancor più oggi – rappresentano un baluardo di garanzia sulla sostenibilità del debito pubblico. Non sono un 'tesoretto' utilizzabile per altri investimenti pubblici, quindi devono essere utilizzate come volano per il rafforzamento del patrimonio del sistema finanziario italiano, bancario e assicurativo, con effetti positivi sulla crescita. Va infine aggiunto che dalla rivalutazione emergerà un introito fiscale di circa un miliardo per il bilancio dello Stato e che, parallelamente, la riforma ha consentito un altro risultato: la copertura finanziaria per l'abolizione della rata IMU prima casa di dicembre. La nostra non è una valutazione acritica, perché il Partito Democratico ha più volte stigmatizzato alcuni aspetti del provvedimento. Riteniamo, per esempio, che una riforma così importante dovesse essere fatta per legge e non per decreto, nonostante questa celerità sia stata originata dall'urgenza, da parte del governo, della ricerca delle coperture finanziarie per l'IMU prima casa. Altri punti critici, di merito, riguardano la fase transitoria. Per tre anni i proprietari delle azioni potranno vendere le medesime alla stessa Banca d'Italia. Il rischio che evidenziamo è di tipo patrimoniale per la banca (se dovesse acquistare, ad esempio, ad un prezzo superiore di quello di vendita), ma anche di tipo politico, poiché, se la Banca dovesse acquistare ad un prezzo 'troppo alto' si potrebbe configurare l'ipotesi di un aiuto statale vietato dalle regole europee. Questi rischi, tuttavia, dovrebbero essere mitigati dai paletti contenuti nella legge e dalla stessa posizione della BCE.

on. Avv. Michele Pelillo
segretario Commissione Finanze della Camera dei Deputati
deputato PD

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